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Arte relazionale: vivere l’opera
#Exhibitions
Gillian Wearing, Signs that say what you want them to say and not Signs that say what someone else wants you to say, Da sinistra: BEST FRIENDS FOR LIFE! LONG LIVE THE TWO OF US, MORE LOVE!, I’M DESPERATE, WORK TOWARDS WORLD PEACE, 1992-1993 | © Gillian Wearing | Courtesy Maureen Paley, London, Tanya Bonakdar Gallery, New York and Regen Projects, Los Angeles

Sedie spaiate, tavoli condivisi, luci basse: l’opera qui non si contempla, si abita. Il percorso trasforma il museo in un laboratorio di incontri dove il pubblico diventa materiale, soggetto e misura dell’arte. È il cuore dell’“arte relazionale”, pratica che dagli anni Novanta del '900 mette al centro le relazioni umane e i loro contesti sociali, anziché l’oggetto autonomo: non un quadro da guardare, ma uno spazio, una situazione, un tempo da vivere insieme. Teorizzata a fine decennio come “estetica relazionale”, questa tendenza ha ridefinito il lessico del contemporaneo: installazioni partecipative, cene, giochi, ambienti condivisi in cui l’artista diventa un catalizzatore e il significato si costruisce tra le persone. In mostra, opere e dispositivi di una generazione che ha aperto l’arte alla sfera collettiva: Vanessa Beecroft e le sue coreografie di presenze, Maurizio Cattelan tra ironia e corto circuito simbolico, Dominique Gonzalez-Foerster con ambienti narrativi, Carsten Höller e l’esperienza percettiva, Pierre Huyghe e Philippe Parreno tra finzione e biologia, Rirkrit Tiravanija con convivialità e padelle come scultura sociale. A trent’anni dall’esordio, la lezione resta attuale: l’opera è un dispositivo di relazione che sposta l’attenzione dall’oggetto al legame, dall’unicità alla co-presenza, dall’autorialità alla partecipazione. In tempi di reti e algoritmi, questo racconto ricorda che la materia prima dell’arte può essere ancora e soprattutto la qualità del nostro stare insieme.
Viola Canova - © 2025 ARTE.it per Bvlgari Hotel Roma