Attenti a quei Tre!

Attenti a quei Tre!
#Art
Triple Trouble, Shepard Fairey, Damien Hirst e Invader alla Newport Street Gallery | Courtesy © Shepard Fairey, Damien Hirst, Invader

Triple Trouble alla Newport Street Gallery non è una semplice operazione di prestigio che mette insieme tre nomi di peso. È piuttosto un esperimento sulla natura stessa della collaborazione artistica, giocato sul filo del conflitto più che della convergenza. Shepard Fairey, Damien Hirst e Invader arrivano da tre territori distinti, con linguaggi noti per la loro capacità di saturare lo spazio e imporsi all’occhio. L’incontro tra queste tre identità, più che una fusione, produce un effetto di attrito che la mostra non tenta mai di risolvere. È questo, in fondo, il suo valore. L’allestimento, distribuito nei sei spazi della galleria, si affronta quasi come una sequenza di collisioni controllate. Non c’è una narrazione lineare, non c’è un percorso pedagogico. È un susseguirsi di contrasti: la freddezza clinica delle serialità di Hirst accanto alle geometrie militanti di Fairey, i mosaici pixellati di Invader che intervengono come interferenze digitali su immagini nate per tutt’altro contesto. Il linguaggio di ciascuno resta immediatamente riconoscibile, ma viene sottoposto ad una pressione nuova, come se ogni opera fosse un terreno di prova per verificare quanto il proprio stile possa reggere l’urto degli altri due. La collaborazione tra tre autori così differenti non produce una sintesi e non cerca un’estetica comune. Piuttosto mette in luce le architetture mentali che guidano i tre artisti. Fairey opera nella dimensione del simbolo e della propaganda visiva, con una grammatica costruita sulla ripetizione come strumento politico. Hirst lavora sulla serialità come sistema filosofico, sulla tensione tra attrazione e repulsione, sulla pulizia formale che diventa quasi ossessione. Invader porta con sé la logica del gioco, della caccia urbana, della riproduzione infinita di un codice digitale. Vederli convivere significa osservare tre modalità di produzione dell’immagine contemporanea messe in relazione diretta, senza mediazioni esplicative. La mostra funziona proprio perché rifiuta di addomesticare questa dissonanza. Le opere nate a sei mani, più che celebrazioni di un’intesa, sono prove di resistenza. La tecnica rotante di Hirst entra in conflitto con le immagini programmatiche di Fairey, mentre gli interventi pixellati di Invader incrinano il rigore dei cabinet e la struttura dei pannelli. L’effetto complessivo è quello di un laboratorio aperto, dove l’opera non aspira alla perfezione ma registra il processo, la tensione, il rischio. Non c’è compiacimento, né l’idea di rassicurare il pubblico con formule note. Triple Trouble si inserisce così in una linea di progetti che interrogano il rapporto tra cultura visiva pop, street art e istituzione museale, senza limitarlo a una semplice somma di estetiche. È un’esposizione che chiede allo spettatore di accettare l’imperfezione, la frizione, il cortocircuito. E soprattutto racconta come tre artisti, ciascuno abituato ad occupare lo spazio in maniera totalizzante, possano incontrarsi non per armonizzarsi, ma per spingersi uno dentro il territorio dell’altro. In questo senso, più che una mostra, è un esperimento di convivenza forzata che produce qualcosa di raro: un dialogo che non cerca di piacere, ma di mettere in discussione.
Veronica Azzari - © 2025 ARTE.it per Bvlgari Hotel London