Man Ray torna a Milano. Un ritorno postumo, certo, ma necessario. A quasi mezzo secolo dalla sua scomparsa, la retrospettiva che Palazzo Reale ospiterà da settembre 2025 promette di restituire il senso di un’opera che ha attraversato il Novecento senza mai smarrire la propria carica di rottura. Non una semplice celebrazione, ma un’indagine sulla natura stessa della visione, sulla possibilità che l’immagine non si limiti a rappresentare ma esista come forma autonoma di pensiero. Nato a Philadelphia nel 1890, Emmanuel Radnitzky si trasferisce a New York, dove incrocia il fermento delle avanguardie e stringe amicizia con Marcel Duchamp. È il passaggio chiave: l’arte smette di essere un esercizio formale e diventa concetto, provocazione, ricerca di nuovi codici. Il 1921 segna il trasferimento a Parigi, l’incontro con Breton, Aragon, Éluard e soprattutto con Alice Prin, meglio nota come Kiki de Montparnasse, musa e compagna, protagonista di scatti destinati a diventare icone. Le Violon d’Ingres, il volto perfetto accostato all’illusione di un corpo-strumento, racconta già tutto: il gioco, l’ambiguità, il cortocircuito tra realtà e artificio. Man Ray non si accontenta della fotografia come registrazione. La piega, la deforma, la reinventa. Con le rayografie, sviluppa immagini senza fotocamera, esponendo oggetti direttamente sulla carta sensibile. Con le solarizzazioni, inverte luci e ombre, altera la percezione, svela dettagli impensabili. Approda alla moda quasi per caso, ma la trasforma in un campo di sperimentazione, regalando alle riviste dell’epoca uno sguardo che è al tempo stesso estetico e concettuale. Nel 1940, la guerra lo costringe a tornare negli Stati Uniti. Hollywood non è Parigi, e Man Ray fatica a ritrovare un proprio spazio. Torna in Francia nel 1951 e vi rimane fino alla morte, fedele a quella città che più di ogni altra ha saputo accogliere e amplificare la sua ricerca. La mostra milanese ne ripercorre il cammino attraverso materiali originali: stampe vintage, negativi, collage, documenti. Ma più che un itinerario biografico, è una ricognizione su un metodo, su un’idea di fotografia che non si accontenta di riprodurre ma pretende di riformulare il visibile. Gli autoritratti, le muse, i nudi, la moda, le sperimentazioni tecniche si intrecciano in un racconto che è prima di tutto una sfida ai limiti del linguaggio. Perché Man Ray, in fondo, è stato questo: un artista che ha preteso dalla fotografia molto più di quanto essa fosse disposta a concedere.
Paolo Capano - © 2025 ARTE.it per Bvlgari Hotel Milano